Perchè conviene dire che ...
"i corsi non servono a niente"

nascondere la testa sotto la sabbia

La decisione di partecipare ad un corso parte da una considerazione:
"se miglioro le mie competenze e le mie capacità posso ottenere risultati migliori di quelli attuali".

Sembra un’affermazione banale, ovvia, scontata … sembra! Sono tante, troppe, le cose che sembrano ovvie e scontate, ma che non lo sono affatto!
In realtà un’affermazione del genere implica la capacità di vivere bene con sé stessi, di accettare i propri limiti e le proprie debolezze, oltre che la convinzione di potersi migliorare e quindi una sufficiente fiducia in sé stessi per la possibilità di superare quei limiti. È necessaria poi un’altra convinzione: quella di poter intervenire sul mondo e sugli eventi, di poter cambiare le dinamiche della propria vita, per reindirizzare gli accadimenti nella direzione voluta.
Questi tre fattori (i primi due sono interconnessi) sono mattoni portanti della "maturità psicologica" ed espongono a rischi, pratici e psicologici, ai quali le persone meno mature o psicologicamente problematizzate, ben si guardano dall’esporsi. Da qui la tendenza a rifuggire da un’affermazione come quella iniziale.

È interessante analizzare in dettaglio alcuni meccanismi implicati dall’affermazione "se miglioro le mie competenze e le mie capacità posso ottenere risultati migliori di quelli attuali":
- Una prima implicazione è che allo stato attuale non si operi al massimo delle possibilità, di conseguenza che parte degli insuccessi o dei fallimenti siano demandabili ad una propria inadeguata modalità comportamentale/operativa (è come dire che non si è risolto il problema non perchè questo è irrisolvibile, ma perché non si è stati capaci di risolverlo). In qualche modo è necessario assumersi la responsabilità di almeno parte degli insuccessi.
- Ritenere che migliorando competenze e capacità sia possibile ottenere risultati migliori implica fiducia nelle proprie potenzialità. Tale fiducia in sé stessi segue l’esperienza, cioè bisogna avere vissuto situazioni nelle quali impegnandosi nell’apprendimento di qualcosa di nuovo si è migliorato il proprio rendimento. Ma una tale esperienza implica impegno e fatica oltre alla capacità di saper aspettare per ottenere risultati apprezzabili.
- Attribuirsi la possibilità di intervenire sugli eventi e quindi essere una componente determinante del loro evolversi, ha anche un’implicazione negativa. Quando si afferma di poter cambiare le cose comportandosi in modo diverso non si può fare a meno di riconoscere che tutte quelle volte che le cose sono andate "male", o non si è fatto niente per modificarle o si è fatto qualcosa di sbagliato che ha compromesso la situazione.
Riconoscersi dei limiti, delle responsabilità e, in alcuni casi anche delle colpe, per una persona che vive bene con sé stessa e si accetta, non è traumatico. In questo caso l’identificazione di limiti e colpe non lede l’immagine di sé stessi o l’autostima, anzi si tende a reagire con la volontà di migliorarsi.
Quando invece l’autostima è relativamente bassa, e la convivenza con sé stessi è precaria, l’identificazione di limiti e di colpe può sovvertire un equilibrio faticosamente raggiunto e mantenuto, ne deriva la necessità di "difendersi" dai propri errori e dalle proprie manchevolezze. Riconoscere aspetti negativi o non ottimali di sé potrebbe diventare un’esperienza devastante, potrebbe essere frustrante in grado e misura superiore al sopportabile.
Tutto ciò costituisce solo il punto di partenza, infatti c’è un’ulteriore implicazione: l’intenzione di cambiare le cose secondo i propri desideri e aspirazioni richiede anche la disponibilità a sperimentare sé stessi e quindi la disponibilità a imbattersi nell’insuccesso.

Quando la fiducia in sé stessi è particolarmente bassa l’insuccesso viene dato per scontato o altamente probabile. Che l’insuccesso sia dato per scontato o molto probabile determina dinamiche diverse, ma il risultato è lo stesso. Se è dato per scontato, è inutile "provarci" e quindi molto meglio preoccuparsi subito di trovare degli alibi ("il cliente che è testardo o irragionevole", "il mercato che è in crisi", ecc. ecc.: le scuse non scarseggiano mai!). Se è ritenuto altamente probabile, è anche particolarmente temibile per la scarsa autostima in quanto si configura immediatamente come la possibile manifestazione della propria inadeguatezza. In quest’ultimo caso l’insuccesso è vissuto come una colpa anziché come una eccezionale forma di apprendimento.
In tutti questi casi diventa preferibile negare eventuali proprie responsabilità e attribuire tutte le cause degli insuccessi agli altri (al "cliente che è stronzo", a "concorrenti scorretti", a "la crisi del mercato" – cause fondate ma mai totalizzanti).

La questione dell’intervenire per modificare gli eventi con il proprio agire pone delle questioni sia di carattere individuale che di carattere storico-culturale.
In Italia il brodo culturale dominante è tradizionalmente ispirato alla "provvidenza", cioè all’attesa che accada qualcosa che risolva i problemi senza la necessità che l’individuo agisca in prima persona. A fronte dei problemi, la dominanza culturale è orientata all’attesa che gli eventi evolvano positivamente o che una forza superiore o che qualcun’altro intervenga per risolverli. La dominante culturale è che la soluzione dei problemi non sia di competenza dei singoli ma di una qualche dimensione divina (che non è ancora intervenuta).

Se è vero che la deresponsabilizzazione del singolo è la dominante, c’è un altro che la rafforza: adoperarsi per intervenire sulla realtà e reindirizzarla secondo i propri desideri richiede impegno, dedizione forte e profonda, lavoro intenso e quotidiano, concentrazione e attenzione al dettaglio. In due parole richiede: impegno e fatica. Se vi è scarsa disponibilità all’impegno e alla fatica per modificare le cose allora meglio dire che impegnarsi e faticare non serve a niente perché i problemi sono più grandi di quello sarebbe possibile fare.

Se il brodo culturale induce a disimpegnarsi, la scarsa disponibilità ad impegnarsi trova sponda e alibi nel brodo culturale. Ecco che allora è molto più conveniente sostenere che è tutta colpa delle banche che non danno i mutui (tanto per fare un esempio) anziché cercare soluzioni vere per aumentare i fatturati.
Insomma, riconoscersi fiducia e possibilità di cambiare le cose significa lavoro, impegno, progettualità, programmazione e possibilità di sbagliarsi: è indubbiamente molto più comodo starsene seduti ad aspettare che le cose cambino, magari intercalando di tanto in tanto dei lamenti per come vanno le cose, per come sarebbe meglio se andassero diversamente.

Già perché c’è un’ulteriore considerazione da fare: riconoscersi la possibilità di cambiare le cose fa perdere il "diritto" a lamentarsi. Se ci si riconosce la possibilità di cambiare gli eventi quando le cose non vanno come sperato, la frase da dirsi è "non ho fatto abbastanza" e quindi in qualche modo, forma o misura, riconoscersi la responsabilità della realtà che si sta vivendo. Non si ha più la possibilità di starsene rannicchiati in poltrona a sussurrare "Com’è cattiva la vita con me. Ah! Se il mondo mi avesse capito e saputo apprezzare quanto avrei potuto dare!" e intanto aspettarsi che qualcuno ci carezzi i capelli, ci sussurri parole dolci e comprensive; ci metta una copertina sulla gambe e ci prepari un brodino caldo.

In conclusione, affermare che i corsi non servono a niente dà la possibilità di non dover mettere in discussione niente di sé stessi, di poter imperterriti considerare sé stessi al di là di errori sostanziali e determinanti, di difendere l’immagine di sé stessi, di proteggere il fantasma di un vacuo e inesistente amor proprio. Offre la possibilità di affermare che niente di ciò che ci accade è in qualche modo determinato da noi, che gli eventi ci trascendono, ci travolgono e che noi ne siamo soltanto vittime innocenti. Permette di apparire candidi e puri qualunque cosa sia accaduta, qualunque cosa (sbagliata) si sia fatta.
Per di più si ha la possibilità di esercitare il vuoto diritto al lamento per potersi sollevare da colpe o responsabilità nella speranza di raccogliere il gratuito aiuto dagli altri.

Inevitabile concludere che è molto più comodo affermare che i corsi e la qualificazione professionale non servono a niente! C’è un non trascurabile dettaglio però da considerare: gli eventi, le dinamiche della vita non tengono conto delle dimensioni psicologiche soggettive. Hanno anima propria ed evolvono secondo regole impietose che travolgono gli insignificanti fuscelli che si ostinano a non guardare.
Scegliere di non riconoscere la realtà è decidere di vivere un sogno dal quale il risveglio può essere molto doloroso.

Nascondere la testa sotto la sabbia non vuol dire eliminare il pericolo o cambiare le circostanze, vuol dire essere colpiti da situazioni sgradevoli senza neanche riuscire a capire che cosa sia successo.

A dire il vero c’è un ulteriore motivo per il quale si può essere indotti a ritenere che i corsi e la qualificazione professionale non servono a niente. Sta nella convinzione che l’apprendimento di qualcosa di nuovo non serva a risolvere i problemi della vita e del lavoro. Questo significa non aver mai fatto una vera e reale esperienza di apprendimento. All’arroganza dell’ignoranza c’è ben poco da controbattere, si tratta soltanto di riuscire a sopportare la sgradevole vicinanza di qualcuno che (se non cambia) ben presto sarà ai margini dell’attività professionale prima e della società poi.

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